La nuova casa napoletana
Lorenzo Capobianco – Responsabile scientifico del progetto
Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale “Luigi Vanvitelli” – SUN
Tentare la definizione della nuova casa napoletana tracciandone le linee del prototipo, per la città di Napoli, come d’altra parte per tutte le città d’Italia, può sembrare un’operazione intellettuale largamente gratuita sempre che non voglia rappresentare, in qualche modo, una dichiarazione d’intenti, un “manifesto” che muove dalla conoscenza e dalla comprensione della storia della città, della cultura e delle abitudini dei suoi abitanti. In altri termini la dimensione privata, quella della casa, è qualcosa di intimamente connesso alla storia della città a partire dalla sua stessa declinazione mediterranea. La città di Napoli, così come ci è stata consegnata dal ‘900, non appare certo una città “compiutamente moderna”, piuttosto una città stratificata sulla propria storia, costruita, per così dire, sui sedimenti della storia, luogo dove coesistono e convivono infinite contraddizioni, a partire dall’irrisolto rapporto tra spazio pubblico e spazio privato, che loro volta si proiettano pesantemente sull’intera area metropolitana. Qui, la sequenza anonima dell’insediamento moderno ha spesso sfigurato l’identità dei luoghi che definivano l’originario paesaggio rurale, innescando inquietanti processi di corrosione dell’ambiente.
Nella città storica la dicotomia tra vicolo e palazzo, l’ossimoro strutturale che la letteratura riconosce nella città, si riflette sulle stesse modalità dell’abitare, stabilendo una precisa gerarchia dei luoghi e delle consuetudini di vita all’interno diverse insulae in cui si disegna la città: in ogni quartiere un certo numero di palazzi rappresentativi, diviene il naturale polo culturale e decisionale mentre, i vicoli, accolgono l’aggregato minuto della popolazione che in essi sperimenta socialità e modalità di “sopravvivenza” quotidiana. Non a caso, nei racconti di una testimone del primo Novecento dello spessore di Matilde Serao, il palazzo è descritto sempre dall’interno: una successione di stanze e spazi agiti da personaggi “eccellenti”, una città altra e diversa da quella che è fuori vissuta dal popolo minuto, dagli esclusi dalla storia. E’ la città, d’altra parte, che si presta ad essere letta non tanto come un organismo unitario, autonomo e riconoscibile, quanto come l’aggregazione in successione di insulae, veri e propri microcosmi autoreferenziali.
E tuttavia in ognuna di esse si ripete la medesima condizione, la coesistenza di due realtà opposte: alla villa, al palazzo, luoghi integrati alla natura e sedi deputate ad accogliere lo svolgersi della storia, si accompagna la realtà del “basso” e della riduzione estrema dello spazio dell’abitare. Indimenticabile la descrizione di Eduardo De Filippo nelle parole di Filumena Marturano: “Avvoca’, ‘e ssapite chilli vascie… I bassi… A San Giuvanniello, a ‘e Virgene, a Furcella, ‘e Tribunale, ‘o Pallunetto! Nire, affummecate… addò ‘a stagione nun se rispira p’ ‘o calore pecché ‘a gente è assaie, e ‘a vvierno ‘o friddo fa sbattere ‘e diente… Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno… Io parlo napoletano, scusate… Dove non c’è luce nemmeno a mezzogiorno… Chin’ ‘e ggente! Addò è meglio ‘o friddo c’ ‘o calore… Dint’ a nu vascio ‘e chille, ‘o vico San Liborio, ce stev’io c’ ‘a famiglia mia. Quant’èramo? Na folla!”. Nelle modalità dell’abitare un reale cambiamento è portato per la prima volta dalla modernità dando ascolto ai bisogni individuali del nascente ceto medio. Tuttavia la casa borghese finisce con il mutuare stili di vita delle elite aristocratiche, riducendoli negli spazi più angusti delle necessità quotidiane. Nelle costruzioni del primo Novecento che disegnano il volto dei quartieri della nuova borghesia, l’appartamento tipo obbedisce sostanzialmente a una divisione tipologica ereditata dal palazzo signorile: divisione tra zona notte e giorno, ricevimento e rappresentanza, studio e lavoro, zona della servitù, etc. La casa, l’abitazione privata, continua ancora ad ignorare il rapporto con la città, organizzandosi su di un registro sostanzialmente autoreferenziale ed introverso, espressione della condizione in certa misura “chiusa” di una città che cresce ancora su se stessa. Anche da questo punto di vista, sarà il Movimento Moderno che, proponendosi come risposta agibile e aperta alle diffuse esigenze popolari, non solo darà corso alla ricostruzione del secondo dopoguerra, ma promuoverà anche nell’idea di abitazione un processo d’intenso rinnovamento dei dettati tipologici e del disegno dei suoi elementi di arredo. Di fatto saranno gli standard delle case popolari ad innescare un’autentica rivoluzione nell’idea di abitare e, al tempo stesso, a prospettare un cambiamento di rapporto fra spazio pubblico e privato, fra interno ed esterno, aprendo, e legando, lo spazio domestico alle problematiche del tessuto urbano.
La crescita della città, che coinvolge anche la sua nascente area metropolitana, sembra svilupparsi almeno secondo un duplice registro: l’intervento pubblico, da un lato, urbanizza il territorio disegnando i nuclei fondativi della città nuova, mentre l’intervento privato, dall’altro, finirà con il saturare nuovi e vecchi spazi della città e della cintura urbana degenerando troppo spesso nella speculazione edilizia.
All’omologazione diffusa dell’insediamento speculativo corrisponde la dissoluzione della memoria e dell’identità dei luoghi: il tradimento di quell’idea antica di casa mediterranea che permea l’habitat della tradizione e a cui dovrebbe essere affidata la direzione del rinnovamento alla propria terra.
L’abitazione, tuttavia, rivede nella residenza il suo rapporto con la natura e con il contesto soltanto nelle zone privilegiate dal processo di crescita urbana, laddove il valore di mercato ne assicura l’opportunità dell’investimento. In questi luoghi è possibile registrare le esperienze di alta qualità e d’intenso valore espressivo della cultura moderna napoletana. Una qualità del disegno e dello spazio che, oggi, si pone come riferimento d’obbligo per il lavoro di restyling e di rigenerazione urbana che ci attende: lavorare sul tema della casa, nel rispetto democratico dei bisogni individuali, a partire dal recupero della tradizione culturale e dell’immagine dei nostri luoghi.
Al fascino del design sono affidati, quindi, la memoria e il desiderio: la ricerca di un legame di continuità con una comunità che ci ha preceduto o la ricerca di ciò che rimane di un “intorno” dimenticato, i segni e i colori di un habitat familiare, spesso ripudiato, ma tuttavia sempre presente. La casa che verrà disegna un nuovo rapporto tra lo spazio privato e il mondo esterno: gli interni tradizionali chiudevano in un recinto oggetti e consuetudini familiari nell’ordine convenzionale delle camere e delle funzioni. Domani, a questi stessi oggetti, sarà affidata la trasmissione della memoria nella ricomposizione aperta e flessibile di uno spazio più dinamico; spazio capace di integrare e dialogare con una natura e un ambiente urbano risanato.
Peraltro, “mettere in rete” imprese artigianali, realtà produttive locali e la creatività napoletana significa non solo gettare le basi per lo sviluppo di una nuova economia affidata al design ma anche tentare di innescare un processo virtuoso di rigenerazione e rinnovamento dei luoghi che, a partire da una reinterpretazione della nostra tradizione, sappia trasformare l’immagine degli spazi urbani.
In questa direzione il recupero di una tradizione artigiana, e la capacità di reinventarla declinandola nelle dinamiche economiche contemporanee, è un tema che assume particolare importanza, se non altro perché espressivo di una modalità della percezione e del luogo come quella che Walter Benjamin definiva tattile, sensibile, che deriva dall’abitudine e dall’uso: in altri termini dal sentimento di appartenenza.